Dettaglio luogo

Sa Bovida, carceri spagnole

Il carcere di “Sa Bovida” risale al XVI secolo ed è costruito con pietra di scisto e malta di fango e calce. Il nome deriva dallo spagnolo Bóveda, che significa “volta”, che identifica l’edificio per il suo caratteristico sottopassaggio con volta a sesto acuto.

Dal 1800 la prigione svolse la funzione di carcere mandamentale, cioè di luogo di passaggio. Prima di allora, il sistema giudiziario prevedeva altre pene: per i reati minori, multe, punizioni corporali e lavori forzati; per quelli più gravi, l’esilio o la pena di morte.

La struttura si articola su due piani. Al piano terra si trova un’ampia cella dove venivano detenuti i prigionieri maschi, accessibile solo attraverso una botola dal piano superiore. Al primo piano ci sono due celle femminili, una sala per la sorveglianza e un’altra stanza che nel tempo ha avuto diversi usi: archivio, cella, alloggio del custode, sala per i colloqui con il funzionario regio e, infine, luogo visitato dall’inquisitore, che ogni anno ispezionava tutti i villaggi dell’isola.

I reati che potevano portare alla detenzione erano vari: il più comune era l’abigeato, cioè il furto di bestiame, ma vi erano anche furti di diversa entità, aggressioni, violenze contro persone o beni, reati contro il territorio come incendi o atti intimidatori, e, non da ultimo, la stregoneria.

Le condizioni di vita in carcere erano molto dure, tra freddo e fame. I prigionieri dovevano provvedere personalmente al proprio vitto, e solo in seguito lo Stato si fece carico del loro sostentamento, che però rimaneva insufficiente. Per questo motivo, ad Aritzo un’associazione di dame di carità si occupava di raccogliere donazioni per fornire cibo e vestiti ai detenuti.

La salute dei prigionieri era affidata al chirurgo del paese. La gestione del carcere non era affidata a una gendarmeria, ma a un custode appaltatore.

È documentato che nel 1854 la prigione ospitava fino a 12 uomini nella cella maschile e 3 donne nelle celle al primo piano. Nel 1793 vi furono rinchiusi sei soldati francesi catturati a Margine Rosso, vicino a Cagliari, durante il fallito tentativo di Napoleone di conquistare la Sardegna.

Contatti

Via Francesco Crispi, 25, 08031 Aritzo NU, Italia

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Guida alla visita

Aritzo, Sa Bovida. Sala della Magia e Stregoneria
Aritzo, Sa Bovida. Sala della Magia e Stregoneria - Foto ConsulMedia

La stregoneria è un fenomeno complesso e inquietante che unisce antiche credenze religiose e magiche di origine pagana, come la compagnia di Diana o di Erodiade, profondamente radicate nelle popolazioni europee, alle dottrine teologiche della Chiesa sul diavolo, sviluppate per contrastare queste credenze.

Per estirpare tali pratiche, la Chiesa istituì l’Inquisizione, un tribunale speciale incaricato di indagare e reprimere dottrine ritenute eretiche, cioè contrarie all’ortodossia cattolica.

Le persone accusate di stregoneria erano soprattutto donne che praticavano la magia, la guarigione o la divinazione, spesso anche ostetricia e aborto. Inserite in un contesto culturale ricco di credenze magico-religiose, queste donne erano viste come capaci sia di portare benefici sia di scatenare disgrazie tramite malefici.

Le streghe — chiamate in sardo Bruxas, Mayargias o Cogas — erano accusate di crimini gravissimi, considerate alleate del diavolo. Venivano catturate dall’Inquisizione e, dopo detenzioni e torture fisiche e psicologiche finalizzate a estorcere confessioni, venivano condannate a pene severe: esilio, frustate o, nei casi più gravi, il rogo.

Tra il 1492 e il 1708, in Sardegna si contarono circa 4.000 processi per stregoneria.

Alla fine del Cinquecento si ricorda il caso di Antonia Usay, una strega di Aritzo, documentata nei processi inquisitoriali. Accusata di apostasia, idolatria, patto col diavolo, negromanzia a scopo divinatorio e di aver suscitato tempeste di acqua e vento, venne condannata dal tribunale dell’Inquisizione, al disonore dell’Autodafé (Proclamazione solenne della sentenza dell'inquisitore, cui seguiva la cerimonia pubblica dell'abiura o della condanna al rogo dell'eretico).

Aritzo, Sa Bovida. Cella maschile
Aritzo, Sa Bovida. Cella maschile - Foto ConsulMedia

La cella maschile, originariamente, era completamente chiusa da quattro mura e vi si poteva accedere solo attraverso la botola, utilizzando una scala di corda. La grande porta in legno che vediamo oggi è stata aggiunta in epoca moderna, durante i lavori di restauro per trasformare l’edificio in un museo.

Le pareti, oggi in pietra a vista, un tempo erano ricoperte da uno spesso strato di calce, applicato per impedire ai prigionieri di scavare tunnel e tentare la fuga. Il pavimento originale era composto da travoni soprapposti in senso opposto che fuoriuscivano dai muri.

Durante i mesi più freddi, la temperatura all’interno della cella scendeva drasticamente, tanto che non era raro che i detenuti morissero di freddo. Le condizioni igieniche erano estreme: i bisogni venivano fatti in una buca senza collegamento con l’esterno, costringendo i prigionieri a convivere con odori insopportabili.

I detenuti più ribelli venivano immobilizzati con la catena legata al collo, usata come strumento di coercizione e tortura. Anche il cibo veniva calato dalla botola tramite un barattolo legato ad una cordicella.

La fotografia mostra due noti latitanti barbaricini, originari di Aritzo e di Gadoni, nel giorno della loro cattura, dopo una latitanza durata ben diciannove anni.

Aritzo, Sa Bovida. Locale guardiania
Aritzo, Sa Bovida. Locale guardiania - Foto ConsulMedia

Questo ambiente, destinato un tempo alla guardiania, si presenta con linee semplici ed essenziali. Le pareti spoglie e il tetto con le tegole a vista evocano l’atmosfera domestica di una cucina tradizionale, con il camino e i fornelli a carbone. Un luogo che, nonostante la sua funzione di controllo e sorveglianza, richiama la quotidianità del mondo femminile di un tempo.

Accanto al corpo di guardia si trovano due piccole celle destinate alle donne. Pur nella loro ristrettezza, queste stanze offrivano condizioni relativamente più dignitose rispetto ad altre prigioni dell’epoca: muri intonacati e tinteggiati a calce, un soffitto in legno che le isolava dal tetto e contribuiva a proteggerle dal freddo e dall’umidità.

Qui, oggi, trova spazio una suggestiva mostra permanente dedicata alla stregoneria. Gli oggetti esposti ci raccontano credenze antiche, riti oscuri e pratiche magico-religiose. Ci sono bambole di pezza e sughero, utilizzate per i malefici; immagini sacre e monete legate a croce con un filo, usate come amuleti protettivi; piccoli oggetti in ferro, come una falce poichè le streghe avevano avversione per questo metallo.

Troviamo anche teschi di capra, che rievocano la figura del diavolo, e boccette contenenti oli per maledizioni. Una culla con un barbagianni ci rimanda a un'antica credenza: si credeva che le streghe si trasformassero in uccelli notturni per succhiare il sangue dei neonati e, con le loro carni, realizzare unguenti magici per rendersi invisibili e volare.

Non mancano le famose scope, che le streghe cavalcavano per raggiungere la “tregenda”, i raduni notturni che si tenevano nei luoghi più remoti: in cima alle montagne o lungo i torrenti. E ancora: polvere d’ossa di morti, che si diceva venisse sparsa nei tribunali o sotto le sedie dei giudici per sfuggire alle condanne. Infine, il sale – simbolo di purezza – considerato una protezione contro le forze oscure.

Ogni oggetto qui esposto racconta un frammento di quella che fu, per molti secoli, una storia fatta di paura, superstizione e persecuzione.

Aritzo, Sa Bovida. Chambra del tormiento
Aritzo, Sa Bovida. Chambra del tormiento - Foto ConsulMedia

Questo ambiente ha avuto nel tempo molteplici funzioni: è stato cella, luogo di incontro con il giudice, archivio della prigione e, infine, civile abitazione. Oggi è conosciuto come la “Camera del Tormento”, il luogo dove venivano inflitte le torture.

La tortura era una pratica comune del Tribunale dell’Inquisizione, usata per estorcere confessioni agli accusati di eresia o stregoneria. In Sardegna, le tre torture più frequenti erano la “garrucha” – la  carrucola –, la “toca”, ovvero la tortura dell’acqua, e il “potro” , il cavalletto.

Nella “garrucha”, la vittima veniva appesa per i polsi, con le braccia rivolte verso la schiena, a una carrucola fissata al soffitto. Gli inquisitori la sollevavano, la lasciavano cadere improvvisamente o la facevano dondolare a strattoni, causando la dislocazione degli arti.

La “toca” consisteva nel legare la vittima a un tavolo, inserirle un panno in gola e farle bere fino a otto brocche d’acqua da un litro ciascuna. Quando la vittima sentiva di soffocare, si toglieva il panno e si intimava di dire la verità.

Il “potro” consisteva nel legare la vittima ad un tavolo con delle corde che l’aguzzino tendeva progressivamente, stirando il corpo del suppliziato fino a provocare dolori atroci.

Altre torture di tipo psicologico includevano: costringere l’accusato a indossare il “sambenito”, un abito con una croce rossa che lo marchiava come reo di reati religiosi, farlo assistere a messe pubbliche, esporlo nudo alla “gogna” in luogo pubblico, o costringerlo a fare il giro del paese in groppa ad un asino con un cappello chiamato “coroça”, sottoponendolo al pubblico ludibrio.

Dopo la tortura, veniva pronunciata la sentenza, eseguita dal “braccio secolare”. In caso di condanna a morte, al condannato era concessa la possibilità di pentirsi in punto di morte: se accettava, veniva prima strangolato e poi arso; se no, veniva bruciato vivo.

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